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October 13th, 2024
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Alessandro Carrera: come ci vedono gli altri

Ale Ssandro Carrera

Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin

L'America è diversa, spesso non ci sono gli strumenti per comprendere la nostra storia Formatosi a Milano, all’Università di filosofia con particolare interesse per musica ed estetica musicale ma comunque non sono diventato un musicologo. Per qualche anno ho cercato qualche collocazione lavorando in qualche casa editrice ed insegnando, poi nell’89 l’occasione di partire per l’America con un Concorso del Ministero degli esteri per cui sono andato negli USA come lettore d’italiano. Che cosa rappresentava per lei in quel momento l’America? Non era la prima cosa che avevo in mente, avrei preferito la Germania per il mio interesse nei confronti della letteratura tedesca e per la musica, però l’America era il paese della folk music che in me suscitava un forte interesse. Era il paese di Bob Dylan – di cui ero appassionato e che conoscevo molto bene – e che per me era la chiave per comprendere alcune cose della cultura dell’America. Molto tempo dopo l’ho studiato a fondo e l’ho tradotto fino a pubblicare un libro su Dylan che è uscito per Feltrinelli nel 2001 per i suoi sessant’anni e poi è stato ristampato nel 2011 con un’edizione rivista. Perché Dylan? La fascinazione era iniziata quando avevo 15 anni, per la sua voce prima ancora di capire cosa cantasse, è una voce unica e molteplice che incarna differenti possibilità dell’espressione vocale ma anche culturale americana – un po’ bianca un po’ gospel un po’ ebraica un po’ folk – e quindi nel crogiolo che era Dylan di per se stesso, egli diventava un microcosmo del mondo americano. Oltre al libro ho tradotto tutta la raccolta delle sue canzoni, 255 e più, sempre per Feltrinelli nel 2006 Che cosa ha scoperto in questi testi? Una complessità che, in parte, già conoscevo, poi studiandoli e scrivendo delle note per il libro mi sono reso conto della complessità culturale altissima a volte conscia, a volte no il che non ha importanza per lui è un istintivo, non è un intellettuale, uno che ha letto ed ha assorbito moltissimo dalla forma della musica americana ma anche dalla religiosità americana che è un argomento complesso e difficile ma che è una strada obbligata per capire l’America. Un mondo che per un europeo è aspro, più vicino forse ad un calvinista svizzero o tedesco. Per chi è cresciuto nel cattolicesimo italiano, la religiosità americana è un concetto astruso. La religione americana è severa, si potrebbe definire come una religione del giudizio, della compassione. Andando in America ho imparato a ragionare in un altro modo, non come un americano anche se ci vivo da 26 anni comunque non da italiano. Sono andato in America a 33 anni, troppo tardi per diventare americano bisogna andarci a 12 anni, fare le scuole. Le scuole lì servono proprio a questo, a diventare americani. L’America è un crogiuolo di genti diverse giunta da tutte le parti del mondo che trovano un terreno comune nel quale riconoscersi, attraverso la scuola. Scuole sono delle microsocietà nelle quali s’impara a farsi valere, farsi rispettare, a gestirsi, non necessariamente a diventare colto – questa non è considerata la cosa più importante -, bensì integrarsi in una società. Esalta l’individualismo sin dall’asilo. E’ un elemento fondamentale, individualismo e forte senso d’appartenenza nazionale. Per noi italiani è difficile da capire, l’Italia è una realtà di regioni, province, comuni che sono cresciute indipendentemente le une dalle altre, spesso in contrapposizione con il risultato noi ci sentiamo più vicina alla nostra regione che al concetto d’Italia. L’America che dovrebbe essere un Paese frammentato per la sua realtà multiculturale, multirazziale si riconosce in modo forte in questa unità nazionale. Su ciò non si discute, o almeno così è stato fino all’elezione di Obama che, essendo un afro-americano cresciuto nelle Hawai, mentre suo padre non è neanche nato in America, diciamo che esula dalla tipica storia di un americano ortodosso. Il fatto che lui sia alla casa bianca ha scatenato una reazione violenta da parte della vecchia classe dirigente bianca del sud che ha ricostruito, negli ultimi anni, una sorta di sud virtuale che è quello che è stato sconfitto nella guerra di Secessione. Però, oggi come oggi, se uno guarda la cartina geopolitica degli Stati Uniti, vede che gli stati sconfitti nella secessione hanno creato un’enclave che è individuata come repubblicana reazionaria, con un desiderio di ritornare indietro nei tempi, di ricostruire il sud di Via col vento. Incomprensibile se non fosse per la presenza di Obama. Non riusciranno a fare questo salto nel passato ma sono riusciti comunque a spaccare l’America in un modo che prima non si era mai visto. Ho cercato di spiegarlo in un libro uscito nel 2008 intitolato “L’America al bivio della democrazia” – nato da una serie di articoli di giornale (Europa, del partito democratico) sull’argomento – nel quale ho raccontato al punto div ista del sud, dove io abito e vivo, non nel sud storico ma comunque nel Texas, i cambiamenti e gli enormi sforzi fatti dagli americani anche per eleggere Obama non è stato mica uno scherzo e però anche il contraccolpo che è venuto dopo. Nel libro non c’è perché si ferma a un mese prima delle elezioni ma ho scritto poi tanti altri articolati che spero di rielaborare e pubblicare per dare un seguito alle considerazioni riportate. Attraverso quali tappe è arrivato a stabilirsi a Huston? Huston è stata la mia prima sede per lavorare con il Consolato italiano e con il programma d’italiano dell’Università, però l’incarico che avevo col ministero permetteva, dopo tre o quattro anni,  un trasferimento e chiaramente volevo vedere anche altre realtà per cui quattro anni dopo sono andato a Toronto. Per tre anni ho lavorato alla McMaster University e con l’Istituto italiano di cultura di Toronto. L’incarico è stato rinnovato con un secondo concorso e sono andato a New York dove sono stato per sette anni alla NY University lavorando sempre con un programma dell’Istituto italiano di cultura per il quale ho organizzato tantissimi eventi culturali, soprattutto letterati. Magris l’ho conosciuto a Toronto dove l’avevo invitato ad una serie di letture che si tengono a Toronto regolarmente. Ci eravamo scritti anche prima. Poi ci siamo rivisti a NY dove venne anche Tomizza. Cambiate le regole del ministero, al successivo incarico dovetti decidere se tornare in Italia oppure passare a lavorare a tempo pieno per il ministero. Nel frattempo ricevetti una chiamata da parte dell’Università di Huston dov’ero partito e dove mi  offrivano la direzione del programma d’italiano. Il tutto dodici anni fa, da allora questo è il mio impegno fisso, direttore del programma italiano e di un master – che ho creato con alcuni colleghi – un Master in culture e letterature del mondo. Comprende che cosa? Intanto impegna noi professori a studiare di continuo cose nuove, mai conosciute prima per poter insegnare ciò che interessa agli studenti. Il progetto è ambizioso, costruire da una base che parte dalla base linguistica per dei corsi sulla storia della cultura, la storia delle idee che cerca di coprire la cultura della globalizzazione. Quindi una sfida continua… Certo, anche perché noi abbiamo studenti cinesi, coreani, del Medioriente, dall’America latina, pochi dall’Europa per cui non posso insegnare dal punto di vista europeo. Appunto, che cosa significa insegnare l’italiano a Huston? Non insegno lingua che è affidata ai miei collaboratori, essendo direttore mi occupo di letteratura, alcuni corsi di letteratura italiana sono svolti in inglese. Italiano a Huston, cosa significa, bisogna vedere a chi la si insegna, chi sono i destinatari. La maggior parte studenti di cultura ispanica, perché arrivano dal centro America oppure sono nati in America e parlano lo spagnolo e poi studenti anglosassoni. Perché scelgono l’italiano La cosa più banale è che parlando lo spagnolo ampliare anche all’italiano è semplice da apprendere anche se le due lingua hanno notevoli differenze, molto di più di quanto uno studente distratto possa immaginare quando si iscrive a italiano. Però questa è la prima ragione. Poi c’è l’aspetto culturale, per lo studente ispanico la cultura italiana è una sponda d’appoggio per loro, cioè mente la cultura anglosassone è quella in cui sono destinati a vivere ma è quella che li considererà sempre una minoranza,  finché  non diventeranno maggioranza nel 2040 come è stato previsto ma è la cultura con la quale dovranno scontrarsi, dalla quale verranno giudicati che gli darà un lavoro, che dovrà valutare le loro capacità. L’Italia no, non dovrà fare questo, la sua cultura si assimila per piacere, che non è sentita come minacciosa né imperialista nei loro confronti, l’Italia non ha mai avuto colonie nel mondo ispanico. Quindi c’è una certa facilità nell’approcciarsi a questo tipo d’insegnamento? C’è una certa disponibilità da parte di questi studenti ad assimilare, ad imparare qualcosa di una cultura che loro sentono “amica”. Mentre da parte dello studente di origine anglosassone le motivazioni possono essere diverse, possono esserci una certa fascinazione per l’arte o anche per lo stile di vita, per la moda e la cucina, banalmente. Ci sono anche studenti che origini italiane e che quindi vogliono apprendere la lingua e a cultura? Sì ce ne sono, diciamo che sono una delle realtà vale a dire, ispanici, italofili e pi ragazzi di origine italiana. A Huston, come in tutte le grandi città, ce ne sono tanti di italiani ma dispersi. La percezione dell’Italia in America inizia a Roma e finisce a Firenze, con qualche momento veneziani, tutto il resto non esiste, come mai? Beh, se partiamo da una percezione popolare, non da quella degli studiosi, non da chi conosce veramente l’Italia.  Quella popolare valuta per prima cosa Firenze e la Toscana, perché di libri che raccontano di donne di mezza età che vengono in Italia e riscoprono la vita, ecco, non si finisce più. E poi anche il cinema di Hollywood ha insistito moltissimo su questo mito. Quindi, prima di tutto, Firenze e Toscana, poi Roma perché è la capitale, perché è il luogo delle vacanze romane di Audrey Hepburn e poi Venezia, neanche come parte dell’Italia ma già come la chiamava Petrarca un Alter Mundus, Venezia è Venezia non fa parte del pianeta terra. Infatti, nella percezione è una cosa unica. Il resto dell’Italia raramente lo conoscono e raramente hanno l’occasione di andarci perché la tipica vacanza italiana ha destinazioni predestinate e fisse. Quando lei affronta all’Università tematiche che riguardano Trieste, Tomizza, cosa succede? Trieste e la zona che la circonda sono quasi incomprensibili perché bisogna conoscerne la storia che è molto intricata e, siccome ho anche provato insegnare un po’ di queste cose, ho visto che ci sono problemi, per le molte cose di cui tenere presente, sia di stroia europea che di storia locale che gli americano non possono francamente conoscere, conoscono a malapena la loro storia, la studiano pochissimo a scuola, la geografia poi non viene quasi mai studiata, è quasi assente dai programmi scolastici. Come mai? Eh, come mai, vorrei saperlo anch’io. La scuola americana ha conosciuto un suo ’68 che non è stato la protesta nelle strade contro i modelli d’istruzione dominante, casomai contro la guerra nel Vietnam, ma è stato anche una rivoluzione pedagogica, per cui è stato trasformato  un modello d’insegnamento che in effetti funzionava in un’America stratificata a livello di classe, cioè chi andava nelle buone scuole erano i bianchi di classe media e i neri non ci andavano. Ora, con l’integrazione razziale, il peso dell’istruzione tradizionale è venuto a mancare, quindi la rivoluzione è stata brutale, per certi versi: si è smesso di insegnare grammatica inglese, i ragazzi imparano a leggere e a scrivere ma non le regole grammaticali. Quindi è normalissimo che un americano, oggi trentenne o quarantenne, non possa spiegare la differenza tra un avverbio ed un verbo perché sono concetti che non conosce nemmeno perché non gli sono mai stati insegnati. Un livellamento verso il basso… Sì, assolutamente ma forse era inevitabile. Perché bisognava fare entrare le masse di coloro che erano sempre stati esclusi dall’educazione e che vivono in condizioni talmente diverse per cui non è possibile insegnare le stesse cose a tutti quanti. Assorbiti gli effetti di questa fase, la situazione ora si sta evolvendo? Lentamente, però la rivoluzione e questa necessità d’integrazione ha portato ad un livellamento dell’insegnamento della lingua che è stato sostituito dal fatto che la lingua va appresa naturalmente, non per regole che, se uno vive nel contesto, va benissimo. Quando però si tratta di insegnare una lingua straniera, come dobbiamo fare noi con l’italiano, le cose si complicano. Bisognerà pur insegnare un po’ di grammatica ma loro quella grammatica non la sanno per cui quando devono capire che una parola è un verbo, che l’altra è un aggettivo e l’atra ancora un avverbio, bisogna spiegare il significato stesso delle parole, che cosa indichino verbo, aggettivo, avverbio. E non basta definirli perché sono cose che s’imparano con la pratica, quindi una grossa difficoltà. Poi è stato praticamente eliminato lo studio della geografia, lo studio della storia è limitato allo studio della storia dello stato in cui vivono con qualche generale nozione della storia degli Stati Uniti, qualche generalissima nozione di storia del resto del mondo. Ma non c’è il rischio di formare cittadini inconsapevoli della propria collocazione nel mondo? Non vorrei dare un’impressione eccessivamente negativa. Cercherò di spiegare il perché. Si tratta di cose che ad un europeo farebbero rizzare i capelli in testa. Vedi il caso di una studentessa che un giorno quasi si arrabbia con me perché parlo del Canada e parlo di Ottawa e lei mi chiede: ma come fa, lei che è italiano, a sapere dov’è Ottawa, io non so dove è Ottawa, non so neanche cosa sia. Non riuscire a concepire come uno possa avere nozioni di questo tipo. Oppure potrei raccontare del dirigente di un’industria petrolifera di Houston che va dalla sua segretaria italiana, che me l’ha raccontato e le dice: signorina per favore mi cerchi l’India, io non so dove sia. Ma questa è la norma non è l’eccezione. Quindi, quando devo introdurre il stesso concetto di Italia devo capire se loro sanno dove sia l’Europa. Mi è capitato di incontrare persone che non sapevano che la California fosse negli Stati Uniti. E non sto scherzando. Oppure, concludo con questo, viene a trovarmi mia sorella, andiamo ad un party e quando qualcuno le chiede da dove viene lei dice che viene dall’Italia e un signore distinto le chiede se è venuta in macchina. Di fronte a tutto ciò uno si chiede se è vero lo stereotipo degli americani che non sanno niente, non è vero perché la società è basata su altri criteri che non sono i nostri, non è basata sul criterio della cultura personale ma sulla cultura dell’accesso, non è importante aver letto duemila libri ma che la biblioteca sia aperta fino a mezzanotte. Se uno vuole imparare, ha modo di farlo, se vuole vivere tranquillamente nell’ignoranza, anche. L’ignoranza in un Paese così non è un valore negativo, è una scelta personale che viene rispettata. Naturalmente ha anche una funzione di pacificazione sociale, meno la gente sa e meglio è per chi ha il potere. Non dobbiamo dimenticare che il livellamento verso il basso della scuola americana non è dovuto soltanto alla necessità di inserire quella parte della popolazione che è sempre rimasta esclusa dall’educazione ma anche alla decisione intorno agli anni Ottanta quand’era presidente Ronald Regan,  di depotenziare più che si poteva la scuola pubblica. Questo processo è andato avanti senza che nessuno riuscisse a fermarlo. Questo ha esacerbato il problema. Ma questo per la classe media o medio alta bianca che detiene le chiavi del potere, va benissimo così perché tanto loro mandano i figli nelle scuole private dove l’insegnamento non è che sia pazzescamente migliore ma è un po’ meglio. In genere, con qualche rara eccezione, le scuole private hanno un curriculum magari più strutturato, intenso, richiede un po’ di più. Ed in ogni caso anche chi si rende conto della situazione in cui versano le scuole pubbliche oggi teme non l’assenza di una cultura di base, quello non è sentito come un problema, quello che si teme è che i ragazzi americani perdano, rispetto ai cinesi, ai coreani ed ai giapponesi, nella conoscenza della matematica e delle materie scientifiche. Le materie umanistiche non so o neanche in discussione, non esistono nel dibattito politico, nessuno, nemmeno Obama che ha una formazione di giurista, di umanista,  dirà mai in televisione, dobbiamo incrementare lo studio delle materia umanistiche, perché perde voti se lo dice, perché immediatamente ci sarebbe una reazione. Dopodiché matematica e scienza sono difficili e non è che tutti ce la facciano e comunque ci vuole un’applicazione che appunto il cinese venuto in America con lo spirito dell’emigrante e con la determinazione dell’emigrante, straccia gli americani senza problemi. Un fenomeno presente dappertutto, anche nelle scuole italiane gli immigrati sono maggiormente motivati Per tornare a noi, spiegare Magris e il nostro mondo che cosa implica? Lo si può fare solo ad alti livelli. A meno che uno decida di dedicare un anno intero a raccontare la storia di Trieste dall’Impero austro-ungarico alla seconda guerra mondiale e al trattato di Osimo e fa solo quello, probabilmente alla fine lo imparano, però bisogna fare solo quello. Ho voluto fare anni fa un corso sulla letteratura di viaggio, inserendo Danubio ma gli studenti non erano assolutamente in grado, neanche di andare oltre la pagina 10 per via dell’enorme quantità di informazioni che quel libro contiene: nomi, località, autori, molti dei quali sconosciuti anche in Europa. Quindi, o uno ha già una passione per quell’area culturale e geografica e quindi va avanti anche se non capisce tutto. Ma mancando passione ed idea di quello che è la mitteleuropa, come si fa. Sono, di fatto destinate a rimanere delle realtà invisibili. Bloccato da una studentessa nigeriana cresciuta in Italia che dopo le prime tre o quattro pagine, mi dice: ma scusi, l’autore di questo libro presuppone che noi abbiamo letto tutti i libri che ha letto lui? Ho dovuto rispondere di sì e che se uno non li ha letti almeno che gli dia corda e che vada avanti anche senza conoscere i singoli testi. Quest’anno abbiamo letto una cosa sul romanzo storico, ho inserito questo libro di questo collettivo di autori bolognesi che si chiama 54 ed è una storia in cui Trieste, la Jugoslavia, hanno una grande importanza. Un libro certamente più facile da leggere di Danubio, certamente. Ho visto che facevano notevole difficoltà capire tutti questi cambiamenti di confine e soprattutto l’ideologia. La cosa più difficile da spiegare ad un ragazzo americano oggi sono i conflitti ideologici del Ventesimo secolo. Non è assolutamente attrezzato per capirli: fascismo, comunismo, anarchia, socialismo rivoluzionario, la differenza tra Stalin e Tito, i partigiani titini, italiani bianchi e rossi. Come si fa, è di una complessità spaventosa per chi non c’è cresciuto dentro e ormai sono cose anche molto lontane per rendercene conto, non per noi che le abbiamo vissute ma per qualunque altro è come parlare della guerra di Troia, che per altro è semplice: greci, troiani, gli dei da una parte e gli dei dall’altra, più facile di così non si può. Infatti, Omero lo si insegna ed è popolare, la mia collega di greco che insegna epica ha sempre le classi piene, perché è facile da capire, mentre l’epica italiana non è così facile, anche il risorgimento. Spiegare che è stato fatto da persone che fondamentalmente si odiavano, Mazzini, Garibaldi Cavour che non si potevano sopportare e che hanno fatto comunque una cosa malfatta, a metà ma l’hanno fatta. E’ chiaro che bisogna spiegare queste cose ad un livello di complessità che presuppongono studenti molto motivati, presenti che vogliono veramente entrare nei meandri di una cultura straniera. L’attaccamento alla bandiera può aiutare a capire le aberrazioni del nazionalismo? Bruciare la bandiera è un atto di sfregio ma non esiste il reato di vilipendio, bruciare la bandiera fa parte della libertà di parola per cui non può essere perseguito legalmente. Chiaramente, il nazionalismo americano non è riferibile a quello europeo ottocentesco, non è legato al concetto di confine. E’ basato sul concetto di eccezionalismo che viene da qualche dottrina di uno dei presidenti storici: ovvero l’America come stato eccezionale, un’eccezione nel mondo intero, sul pianeta terra e come tale deve essere preservata. Sono un esperimento, riuscito secondo il loro punto di vista perché non ci sono eguali nella storia se non al tempo dell’impero mongolo, di una nazione giovanissima che diventa la prima al mondo surclassando l’Inghilterra, la Cina, le grandi potenze inclusa la Russia e non finisce subito, cioè la preminenza americana non è come l’orda di Jengin Khan, esiste da più di cento anni e non accenna ad affievolirsi questo suo ruolo. Sull’onda di questo eccezionalismo per cui si considera diversa dagli altri e quindi ha ragione, il perché lo si vede dai fatti, si considerano i più potenti. Come si fa a ragionare di filosofia di fronte a tanto pragmatismo? Gli americani, da questo punto di vista, sono come gli antichi romani, cioè hanno una cultura giuridica più che filosofica. I greci erano i filosofi i romani erano i giuristi e l’America è appassionata di questioni giuridiche. I processi vengono visti in televisione, i casi vengono dissezionati fino all’infimo particolare per mesi e mesi e sono ciò che veramente appassiona tutti. La formazione giuridica della cultura americana è dominante per cui quella americana è una nazione di avvocati. Nei dipartimenti in America s’insegna filosofia analitica, cognitivista, cioè analisi del linguaggio o teoria della conoscenza del cervello. Tutto l’arco che noi consideriamo filosofia pratica, morale, filosofia culturale che è quella che fanno molti filosofi oggi, dai più teoretici ai più pratici, questa viene insegnata nei dipartimenti di lingua inglese, di letteratura comparata o in qualche dipartimento di lingue straniere, raramente nei dipartimenti di filosofia. Un esempio – e ce ne sono tanti altri – nella mia università, nel dipartimento di filosofia, come filosofia europea ci si ferma a Leibnitz, Kant magari. La filosofia americana si è scavata un suo percorso, dagli anni Trenta in qua,  non è più europea, comunque siccome il peso dell’accademia americana è comunque dominante, questo modello è stato esportato in Europa per cui in Germania si fa quasi esclusivamente filosofia analitica, così in Italia in alcuni dipartimenti si fa esclusivamente questo tipo di filosofia. Il che significa che la vecchia concezione di filosofia è destinata a scomparire. Michaelstadter è un filosofo greco. In America esiste un unico libro in inglese su di lui, scritto da una collega. La persuasione e la retorica è stato anche tradotto ma non ha avuto alcun riscontro. Rientra nel filone che va da Schopenhauer a Nietzsche, una linea di critica filosofica del linguaggio e non analisi. In u certo senso nei dipartimenti di filosofia non si fa affatto filosofia, si da per scontato che esistano il linguaggio ma si studia l’applicazione facendo l’analisi di ciò che è già dato.  Tutto il resto transita nei dipartimenti di letteratura comparata. Oggi anche di filosofi italiani come gli italiani Vattimo, Esposito, Cacciari ma sempre nei dipartimenti di leteratura. Vale a dire un’enclave. La maggiore soddisfazione Ce ne sono tante, di vedere per esempio una studentessa di origine messicana, di famiglia piuttosto povera, che entra all’università e non sa una parola d’italiano, parla spagnolo ed inglese,  si laurea con una doppia laurea in italiano e latino, diventa insegnante di latino ma torna all’università e si iscrive al nostro master ed ora è stata accettata nel programma di dottorato all’Università di California, a Berkeley, in cui è particolarmente difficile entrare. Un notevole successo per lei ma anche una grande soddisfazione per il nostro dipartimento. Quando vedo che dopo due o tre mesi di fatica in un corso di letteratura o cinema, che insegno più di tutto, vedo che dopo le resistenze iniziali, cedono perché non riescono a resistere o si appassionano sul serio. Con Dante il discorso è diverso, il terreno è già preparato. Chi viene per frequentare un corso su Dante, già lo conosce, sa che va studiato e sono già preparati ad appassionarsi. Con Antonioni magari no. Ci vuole molta dietrologia per entusiasmarli, far capire che devono concentrarsi, accettare i tempi lunghi, le inquadrature lente, imparare a guardare, senza l’impazienza di una storia incalzante. Ormai qualunque film che sia stato fatto prima di dieci anni fa per gli studenti americani è troppo lento. I film degli anni Settanta per loro sono invedibili. Molti studenti non hanno mai visto una pellicola in bianco e nero, raro con i sottotitoli e poi film degli anni quaranta e cinquanta se li vedessero in tv cambiano subito canale. Quando le capita di svolgere conferenze nelle università italiane, che cosa nota. Che gli studenti sono molto più preparati, ma anche nelle scuole superiori. Per me insegnare in Italia è una vacanza, posso dare alcune cose per scontate, cosa che in America non mi posso permettere. Provo una certa tristezza nel pensare che in Italia dove esiste questo livello di preparazione, la società non ha intenzione di inserire queste persone nel mondo produttivo utile, per cui la cultura rimane un patrimonio della sfera personale ma non supera mai il gradino per diventare classe dirigente. Sarebbe perfetto un mix tra le due realtà, americana ed italiana… Bisognerebbe fare un’altra cosa, cioè concepire la storia italiana, come in fondo è in America. Faccio una premessa, in America sono egualitari fino ad un certo punto, la scuola serve per sel e ci selezionare la classe dirigente, e ci sono degli strumenti per farlo, caso emblematico è Obama. E’ vero che sua madre era un’antropologa, quindi una persona colta ma lui è rimasto orfano relativamente giovane e anche povero. Attraverso una serie di meccanismi di selezione riesce ad entrare nelle due maggiori università americane, Columbia e poi Harvard, dove riesce a farsi valere. Poi fa un lavoro sociale e da lì passa alla politica. Con questa selezione lui era già indirizzato. Nel momento in cui entra in politica e si fa notare all’interno del partito democratico, immediatamente viene selezionato come un possibile leader. Nessuno allora pensava al ruolo di presidente ma viene individuato, cioè quelli del partito sanno che lui è uno promettente e gli lasciano spazio. Ecco che attraverso questi meccanismi di selezione che partono dalla scuola e passano attraverso altri meccanismi si crea la classe dirigente. Tutto questo non succede in Italia, la meritocrazia non produce effetti ed è questa la grande differenza, non c’è la cooptazione per censo o per conoscenze eccellenti. O si tratta comunque di casi rari, la regola è un’altra. Ma è vero che a Houston si gira con la pistola? Me lo chiedono spesso. Per quanto mi riguarda la risposta è no, non giro con la pistola. Ma anche questa è una caratteristica molto americana: la passione per le armi, difficile da spiegare come la loro religiosità. Bisogna entrare in una zona della psiche umana dove uno non vorrebbe soffermarsi troppo. E’ molto difficile da capire. Però bisogna dirlo, in America ci sono più armi che persone. Se la gente non fosse così disciplinata, l’American sarebbe un carnaio dalla mattina alla sera. In realtà non succede molto se rapportato al numero di armi in circolazione che suggeriscono l’idea di una società violenta. Comunque le vittime non sono poche, 30.000 all’anno, le armi sono più di trecento milioni. Il che suggerisce che il possesso di un’arma è un cosa quasi banale, un oggetto che viene regalato dal padre al figlio per farlo sentire finalmente un uomo, libero di possedere un’arma secondo il secondo articolo della costituzione americana, tanto importante quanto la libertà di parola. Anzi è convinzione che siano correlate ovvero che senza la libertà di possedere un’arma non ci sarebbe neanche la libertà di parola, sarebbe una dittatura. Uno degli insegnamenti però è anche la loro estrema disciplina. Platone, Aristotele e la storia europea hanno insegnato all’America una disciplina sociale che a volte sconcerta perché finisce col coincidere con l’accettazione di condizioni di lavoro e così via. Ma questa disciplina è fondata sulla dottrina della libertà e della responsabilità personale. Quando parlo di queste cose mi dicono che sono diventato americano, però la prima cosa che si nota guardando la cronaca italiana è la totale assenza da parte della nostra classe dirigente di responsabilità personale. Non imputo direttamente all’attuale classe dirigente perché è un problema che a mio parere sta nel fatto che in Italia ci sono state grandi istituzioni che depotenziavano, per loro statuto,  la responsabilità personale, vale a dire la chiesa cattolica o i partiti. Per come sono nati sono delle macchine di depotenziamento della responsabilità personale. Il fatto stesso che si dicesse una volta come se fosse un valore, voto il partito non voto l’uomo, era un modo di dire io credo in forze impersonali, superiori ad ognuno di noi, e quindi nessuno di noi sarà mai responsabile di ciò che queste forze impersonali faranno, la responsabilità sarà storica non certo individuale. Siccome l’idea della storia mossa da queste grandi masse in America non c’è, tutto ricade sull’individuo che in qualsiasi momento può essere giudicato, magari non penalmente ma dalla società e può esservi escluso. Questo è il motivo per cui un politico americano nel momento stesso in cui sia implicato in uno scandalo, indipendentemente se sia innocente o colpevole, si dimette. Dopodiché si vedrà, magari ritorna sulla scena perché è stato dichiarato innocente, ed il ritorno è ancora possibile non sia né ai tempi della lettera Scarlatta né delle streghe di Salem. Ma la premessa iniziale è importante: se tu sei sospettato di qualcosa di illegale, ti dimetti immediatamente.