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April 18th, 2024
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Ezio Giuricin: La memoria siamo noi

Pietre

Riflessioni sul Giorno del Ricordo

Autore: Ezio Guercin

Il 10 febbraio del 1947 è una data »pesante« che ha inciso profondamente, come uno spartiacque, sul destino della componente italiana dell'Adriatico orientale. Quel giorno ci ha azzannati, ha lasciato una profonda ferita nello spirito e nella carne della nostra gente. Ha segnato profondamente, e per sempre, le nostre coscienze, l'esistenza di quella propaggine di popolo italiano presente da secoli, con le sue radici istriote, venete e latine,  ai margini di un confine conteso. Quel giorno i »rimasti« sono diventati minoranza: non solo dal punto di vista numerico e demografico,  ma soprattutto sociale, economico e politico. La comunità che non ha potuto, saputo o voluto intraprendere la strada dell'esilio  è stata posta in condizioni di totale subalternità. E' inziato cosi' un difficile percorso segnato dai voleri e dal potere delle nuove maggioranze, dai condizionamenti  di una realtà in cui la nostra lingua e la nostra cultura sono state messe gradualmente ai margini. La grande massa degli esodati invece è diventata improvvisamente un »popolo senza terra«, una comunità sradicata per sempre dal proprio mondo. Un popolo strappato alle proprie case, ai propri affetti; privato del diritto di continuare a vivere dove si è nati, l'unico posto in cui si può realmente continuare ad essere sé stessi.  Entrambi »stranieri« e »diversi« siamo rimasti senza un luogo in cui sentirci realmente »a casa«; siamo diventati »ospiti« (noi nei luoghi di nascita, gli esodati in una Patria lontana) di nuove realtà. Abbiamo condiviso specularmente lo stesso destino:  quello - seppure in modo diverso - degli »sradicati«, gente a cui la storia ha negato il diritto di riconoscersi pienamente nel proprio ambiente nativo, di vivere senza tragiche soluzioni di continuità a casa propria.  »Stranieri« rispetto a una Patria che ci stava accogliendo o da cui i nuovi confini ci stavano separando. Riuniti nella comune sorte di persone private, sul piano dell'identità, del proprio posto nel mondo. L'esodo ha fatto da cesoia non solo tra gli esuli e la terra lasciata, ma anche tra »andati« e »rimasti«. Una frattura nelle coscienze che in molti casi non ha consentito agli esuli di elaborare pienamente, negli anni, il peso e la sofferenza del distacco e dunque di maturare un nuovo rapporto con i »rimasti«, con l'ambiente perduto. Per molti le cose sono rimaste fisse, immutabili, irreparabili. L'esodo ha cristalizzato ogni posizione, precluso ogni possibilità: le sue cicatrici, diventate dure come pietre, non hanno consentito (in molti casi, e per fortuna non sempre) che da quell'esperienza rifiorisse qualcosa di nuovo. La punizione più atroce e assurda dell'esilio è stata proprio questa: la divisione della nostra comunità, la profonda lacerazione - imposta dai ricatti delle ideologie, dei poteri e degli Stati - tra gli italiani dell'Adriatico orientale, eredi sparpagliati - e duramente provati - di una presenza e di una civiltà secolari. Oggi abbiamo il dovere di prendere coscienza degli effetti dannosi provocati da questo distacco e della necessità di superarlo definitivamente.  Le »tossine« della storia sono penetrate a fondo nei nostri tessuti e pertanto il progetto di una »ricomposizione« reale e compiuta non appare sicuramente facile. Tuttavia tale processo per molti aspetti è già in corso, frutto di un clima che si va velocemente trasformando e della sensibilità delle nuove generazioni. Ma siamo in grave ritardo: la realtà sociale e politica sta cambiando più velocemente delle nostre coscienze. Fra pochi mesi, con l'entrata anche della Croazia nell'Unione Europea, si aprirà un importante orizzonte: quello dell'abbattimento dei confini e dell'integrazione definitiva, nell'ambito comunitario, di gran parte dell'Adriatico, ovvero del nostro territorio di insediamento storico. Dobbiamo cogliere questa sfida preparati, avviando insieme, esuli e minoranza, un grande progetto che, oltre alla ricomposizione, si ponga l'obiettivo di fondo di preservare e sviluppare la presenza, la cultura e l'identità italiane in queste terre. La nostra presenza nazionale e linguistica è insieme forte e fragile: non è però »data« per sempre, la sua sopravvivenza e il suo sviluppo in questa parte dell'Adriatico non sono scontate. Anche perchè si tratta di una realtà »viva«, fatta di persone e di relazioni concrete e non solo di testimonianze, di monumenti, di ricordi, di musei. Molto dipenderà da noi, dalla nostra capacità di »stare« e di »fare« insieme. Uniti forse riusciremo a sconfiggere la vera beffarda maledizione dell'esodo, il malefico incantesimo sprigionato dal 10 febbraio: la scomparsa o il radicale e graduale affievolimento della presenza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia. Non so quanto possa effettivamente dipendere da noi, e quanto invece potrà essere frutto della globalizzazione, dei media, degli imperscrutabili capricci dell'economia. Ma noi abbiamo comunque il dovere e la responsabilità di superare le divisioni e i ritardi per riallacciare i fili strappati della nostra identità. Abbiamo il compito di rispondere alla domanda che un giorno i nostri figli potrebbero porci: »cosa avete fatto, cosa ci avete lasciato«?