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Santins

Il Vescovo Santin aggredito a Capodistria fu il simbolo delle sofferenze giuliane

Foibe, Esodo, i campi di concentramento titini, la strage di Vergarolla: tante sono le pagine su cui si sta facendo sempre più chiarezza con il consolidarsi del Giorno del Ricordo nella coscienza nazionale. Altrettante se non più sono tuttavia le pagine ancora da raccontare e in questo 2017 non ricorre solamente il settantennale del Trattato di Pace, ma anche di altre drammatiche vicende, una delle quali riguarda Monsignor Antonio Santin.

Defensor civitatis di Trieste nella tumultuosa fase finale della Seconda guerra mondiale ed in precedenza capace di opporsi alle disposizioni fasciste che colpivano i culti della comunità slovena ovvero introducevano le leggi razziali, Santin non aveva mai dimenticato le sue origini istriane, tanto più che la sua Diocesi comprendeva anche Capodistria. La Linea Morgan prima e in seguito la demarcazione fra Zona A e B del mai costituito Territorio Libero di Trieste dividevano però un’area che non solo ecclesiasticamente ma anche culturalmente, economicamente e dal punto di vista delle relazioni sociali era tradizionalmente unitaria ed omogenea. Quel 19 giugno 1947, dopo oltre un anno di assenza, Santin volle tornare a Capodistria per celebrare degnamente la ricorrenza di San Nazario, Patrono della cittadina rivierasca, dando congruo preavviso alle autorità jugoslave. Queste ultime, in base al diritto internazionale, dovevano esercitare un’amministrazione militare, vale a dire garantire l’ordine pubblico ed il rispetto delle leggi vigenti, poiché la sovranità apparteneva ancora formalmente all’Italia, anche se si stava esercitando una progressiva annessione di quel territorio alla Jugoslavia. Il regime titoista aveva già colpito pesantemente il clero pure in Istria, con la morte di don Angelo Tarticchio, don Miro Bulesić, don Francesco Bonifacio e una trentina circa di altri sacerdoti, sicché quel giorno priorità degli occupanti non fu quella di allestire un adeguato servizio d’ordine per consentire lo svolgimento della liturgia, bensì adunare quei medesimi esagitati provenienti dall’entroterra che nell’autunno 1945 colpirono i capodistriani in sciopero contro l’introduzione delle Jugolire. Sulle scale del Seminario cittadino si consumò l’aggressione del presule, il quale fu pesantemente colpito e percosso a sangue, mentre i capodistriani invocavano invano l’intervento della forza pubblica. La polizia intervenne giusto in tempo per scongiurare l’uccisione di un personaggio così importante, ma ormai la violenta intimidazione era giunta a bersaglio, tanto più che nel tragitto verso il posto di blocco di Albaro Vescovà a bordo di un camion scoperto Santin fu bersaglio di alcune sassate: Capodistria era jugoslava e nella Jugoslavia comunista non c’era spazio per le funzioni religiose né per chi le amministrava. Possiamo ritenere che la sofferenza patita dal futuro arcivescovo abbia simboleggiato il martirio del popolo giuliano, fiumano e dalmata, traumaticamente separato dalla comunità nazionale e violentemente aggredito fino a indurlo ad abbandonare la terra in cui da secoli affondavano le sue radici.

Impossibilitato a recare il conforto ai fedeli nelle località sotto controllo della dittatura, Santin si sarebbe prodigato per garantire l’accoglienza ed il primo supporto alle migliaia di esuli che da lì se ne andarono e giunsero nel capoluogo giuliano.

Anche attraverso la proibizione dei culti religiosi si realizzò lo spaesamento del popolo istriano, pure con il ferimento del Vescovo Tito ricordava a Trieste ed ai triestini che il suo regime andava consolidandosi a pochi chilometri dal centro urbano e si dimostrava ancora agguerrito.

 Renzo Codarin,Presidente nazionale e del Comitato provinciale di Trieste dell’ANVGD, 17 giugno 2016