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Giuseppe Parlato

L’esodo giuliano-dalmata fu pulizia etnica Parlato: «Il fine era edificare una società comunista e slava»

Come accennato sul numero precedente, nel pomeriggio di venerdì 24 febbraio si è tenuto all’Auditorium del Salone degli Incanti a Trieste un convegno dal titolo L’Esodo giuliano-dalmata fu pulizia etnica?, a cura dell’Associazione delle Comunità Istriane in collaborazione con IRCI, Università Popolare di Trieste, ANVGD, FederEsuli, Libero Comune di Pola in Esilio e Libero Comune di Fiume in Esilio. L’evento è stato moderato dal prof. Davide Rossi (Università di Trieste). Nel suo saluto introduttivo il presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane Manuele Braico ha rimarcato come ai danni della popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia fu perpetrata una pulizia etnica, non solo politica. Anche secondo il presidente dell’IRCI Franco Degrassi, gli esuli non hanno mai avuto alcun dubbio a riguardo. Dopo i saluti del sindaco Roberto Dipiazza e del consigliere di Forza Italia nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Bruno Marini, hanno preso la parola sei relatori, dei cui significativi interventi daremo conto in questa e nelle quattro pagine successive. Primo a parlare è stato il prof. Giuseppe Parlato, della Libera Università degli Studi San Pio V di Roma. In Istria una programmazione della pulizia etnica ci fu «Sul Tg3 – ha fatto presente lo storico – in occasione del Giorno del Ricordo 2017 è stato detto che fu un’insurrezione popolare perché il fascismo aveva mandato italiani del meridione in Istria per rivitalizzare una terra che stava morendo dal punto di vista demografico. Tipo “stalloni” per “rivitalizzare la razza”. Questa ancora mi mancava: indubbiamente i riduzionisti e i negazionisti sono dotati di fantasia. Coloro che rifiutano la pulizia etnica affermano che questa presuppone una programmazione a tavolino, mentre in Istria vi fu un’insurrezione non programmata. In realtà una programmazione ci fu. Non stiamo parlando di un gruppo di italiani che erano andati in vacanza, poi videro che i posti erano carini e si fermarono, ma di persone che da secoli erano lì e che costituivano la classe dirigente, un elemento importante per il territorio. Erano agricoltori, imprenditori, professionisti, docenti, sindaci… avevano responsabilità amministrative e capacità culturali ed erano il frutto di un humus che da secoli parlava italiano». Gli italiani? Un ostacolo allo Stato comunista e slavo «Cosa bisognava fare – si è chiesto Parlato – per realizzare una società comunista e slava? Gli italiani erano un elemento di ostacolo perché erano radicati sul territorio e avevano proprietà, commerci… Come si fa ad inserire in quelle zone un altro tipo di Stato senza togliere lo Stato di prima? Mentre per il nazionalismo slavo, come in buona misura per quello tedesco, il modello di nazione dipendeva dal rapporto tra sangue e territorio, per gli italiani e i latini dipendeva dalla volontà: riconoscersi in una cultura. La difficoltà del nazionalismo slavo era comprendere come potesse essere successo che in Italia ci fossero degli italiani e dal 1200 si scrivesse in italiano prima che ci fosse lo Stato italiano. Per noi il territorio non c’è: si può essere italiani anche all’estero, anche se non c’è l’Italia e anche senza il Governo italiano, come hanno dimostrato gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, i quali sono stati sotto l’Austria e poi (alcuni) sotto il Regno di Jugoslavia mantenendo la propria caratteristica etnico-nazionale. Per cui la necessità era di togliere questi che sarebbero stati italiani anche sotto la Jugoslavia di Tito. Diventavano un problema perché non erano italiani qualsiasi, ma italiani che pesavano. Dunque bisognava farli fuori. Poi per ragioni di carattere amministrativo-politico le autorità jugoslave misero un po’ il freno, poiché se ne andavano via tutti. E chi restava? Con quali competenze professionali? Furono trasferite persone da vari popoli della Jugoslavia per coprire i buchi». La pulizia etnica si sovrappose a quella ideologica «Non c’è neanche bisogno – ha proseguito il relatore – di andare a scomodare Gilas. L’importante è che ci sia stata la volontà di realizzare una pulizia etnica. Poi, se non l’hanno realizzata, è un altro problema. Non sempre quello che uno vuol fare si realizza. Per fortuna le vittime furono inferiori rispetto ad altre pulizie etniche che la storia ricorda. Ma non perché ci fu un numero inferiore di morti la pulizia non è stata etnica bensì un po’ sommaria, visto che rimase un po’ di… “roba sporca”. Accanto a quella etnica ci fu una pulizia ideogica. In Istria, Fiume e Dalmazia le due pulizie si sommarono, si sovrapposero. Questo fu un fenomeno unico nella storia del ’900 mondiale. Quando Tito cominciò a mandare in Istria gli agenti del Partito Comunista Croato fra il 1941 e il ’42 per fare propaganda, c’era un progetto di comunistizzazione di queste terre. E allora il problema non era solo quello di cacciare gli italiani, che per antonomasia erano “nemici del popolo” che ostacolavano per la loro etnia e la loro caratterizzazione sociale il processo di Tito. Ma bisognava anche far fuori quei “nemici del popolo” che erano slavi, perché altrimenti l’operazione non si sarebbe potuta compiere in maniera completa. Le maglie erano strette. Era difficile riuscire a passare. Si veniva colpiti o perché italiani o perché anticomunisti. Il nazionalismo slavo divenne ancora più feroce perché si accompagnò all’ideologia comunista». La violenza titina mirava non solo all’eliminazione, ma anche alla rieducazione del nemico «Fui chiamato dal giudice Pititto – ha riferito il professore – per fare il consulente per i processi Motika e Piškulić, che poi finirono male perché la corte disse di non essere competente in quanto all’epoca l’Italia non esercitava più la propria amministrazione su quei territori. Alla fondazione che allora dirigevo arrivarono montagne di documenti dall’Archivio Centrale dello Stato, dalla Croce Rossa e dalla Guardia di Finanza. Eravamo in cinque: io e quattro miei giovani collaboratori. Dopo una settimana ero da solo. Gli altri non riuscivano a reggere la lettura di queste descrizioni di violenza. Una cosa pesantissima, terrificante. Quando parlo ai miei studenti o nelle conferenze in varie parti d’Italia per il Giorno del Ricordo non voglio che la descrizione di questa violenza costituisca il motivo per cui la gente se ne occupa. Bisogna occuparsene a prescindere. E’ una violenza che non mirava tanto e soltanto all’eliminazione del nemico, ma alla sua rieducazione, alla sua ricostruzione ideologica. Di fronte all’esemplarità della violenza, anche gli altri si chiedevano se conveniva restare in quei posti. Le foibe, Vergarolla… sono tutti momenti che servivano per spingere questa gente ad andar via. Era una violenza che non mirava solo all’eliminazione del nemico, ma alla creazione di un tipo umano rivoluzionario, un uomo nuovo totalitario che soltanto il comunismo è riuscito a programmare. Questi due livelli di violenza nulla tolgono all’unicità della cacciata degli italiani da quelle zone. L’orticello di casa lo dobbiamo guardare con attenzione, ma ogni tanto guardiamo anche cosa è successo a fianco, perché ci può servire per qualificare meglio e in maniera più comprensibile un sistema di violenze, un sistema totalitario di potere che è stato unico nella storia di queste zone nel ’900».

L’Arena di Pola, Giuseppe Parlato, 6 aprile 2017