Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata
December 12th, 2024
+39 040 771569
info@arcipelagoadriatico.it

Nicolò Giraldi: il “vagito”di una barca.

Giraldi1

Protagonista: Nicola Giraldi
Autore:

Nella zona industriale di Monfalcone, canali navigabili disegnano una geografia particolare. Capannoni e barche, gru e pennoni guidano l’appassionato e il curioso in un mondo di nicchia ma di incredibile fascino e agganci con la tradizione. Tra scafi in riparazione o in costruzione, Nicolò Giraldi, si muove con disinvoltura, da piranese verace. “Sono nato a San Bortolo, in Via Paderno 702” –specifica immediatamente, palesando la sua schiettezza, da uomo di mare delle “nostre contrade” e da “mastro d’ascia”, qualifica conquistata sul campo, un biglietto da visita di grande prestigio. Ma per capire il suo percorso, è importante partire dal ragazzo che giocava (e lavorava) nelle saline di Sicciole.
"San Bortolo era campagna ma mio nonno aveva importanti incombenze nelle saline, e quindi ci portava a lavorare con lui. Ho cominciato ad andare a scuola a Sicciole a sei anni, poi ho proseguito la quinta e l’avviamento a Pirano. Ma, in casa, avevo un compito: aiutavo in campagna a raccogliere e a seminare. Verso i sette anni, visto che mi dimostravo indipendente, ebbi l’incarico di portare il pranzo a mio nonno nelle Saline. Quarantacinque minuti di cammino, di giochi e di sogni. Ero molto legato al nonno, perché era la figura maschile più presente in casa. Mio padre, infatti, navigava su barche piccole e da crociera, e una volta anche su uno yacht di un ministro spagnolo fino al 1937, poi scoppiò la guerra civile in Spagna e poi la seconda guerra mondiale e tutto venne sconvolto”. Come ricorda le giornate nelle Saline? “Era bello perché non si andava solo a lavorare ma anche a pescare: qualche seppia, qualche “guatto” o anche dei cefali. Era divertente anche aiutare il nonno a far arrivare il giusto quantitativo d’acqua dal mare e dal canale principale (che noi chiamavamo fiume) nei cavedini, passando nel fossato, nei morari, nei corboli, nella vasca con la macchina a vento, poi nelle live, quindi ai servidori, ed infine ai cavedini dove si formava il sale. Quando era prevista pioggia, l’acqua madre veniva convogliata nelle fosse dalle quali veniva poi recuperata (gottata) col bottazzo, per continuare a far cristalizzare il sale il giorno dopo”. Per voi ragazzi era un sacrificio o un divertimento? “Tutte e due le cose perché il desiderio del gioco si scontrava con il dovere del lavoro. Eravamo piccoli, si camminava tutto il giorno scalzi e nelle Saline scottava tutto, specialmente quando era il momento di raccogliere il sale. La temperatura dei fanghi, anche se secchi, superava i cinquanta gradi per cui bisognava immergere ogni tanto i piedi in acqua”. In che anno ha cominciato a lavorare allo squero di Pirano? “L’anno era il 1948/49. Aveva cambiato nome da poco, lo squero non era più privato, si chiamava Cantieri Piranesi ed era diventato proprietà del governo jugoslavo o del comune, non so di preciso, ci ho lavorato fino alla fine del 1950 quando ho deciso di partire per l’Argentina a lavorare nei loro cantieri”. Come mai questa scelta? “Mio padre era imbarcato su una nave officina e decise di fermarsi in Argentina. Allora ero minorenne e seguii la famiglia. E poi volevo imparare bene il mestiere e lì potevo continuare nei cantieri. Nel frattempo, mi ero fatto la matricola, per una questione di tradizione, perché sono un piranese e la vita del piranese, si sa, è il mare. Ma in quegli anni l’Italia non era ancora organizzata, dopo la guerra era difficile imbarcarsi se si attendeva il turno generale. Mi chiamarono nel 1962 ma io ero all’estero da più di un decennio, tanto per capire come funzionava allora”. Chi sono stati i primi maestri in cantiere a Pirano? “Il capo era un signore romano, Tamaro, poi c’era Antonio Trani che era un bravo maestro carpentiere e Gino Desina che era uno di origine friulana trasferito a Pirano da tanti anni, poi Cassetti, d’Alessio e tanti altri”. Che cosa le hanno insegnato? “Di giorno si lavorava e la sera si andava a scuola per imparare anche la teoria. Non sprecavano troppe parole. Ricordo che il capo generale, il sig. Apollonio, quando avevo diciassette anni e mezzo, mi chiamò: “vien qua picio”, mi disse in dialetto, e mi presentò un tronco d’albero di 22 metri, bello, lungo, abbastanza diritto, e aggiunse, “adesso t’insegno come segarlo e dopo lo fai quadrato e poi quando sarà quadrato, un po’ con l’ascia un po’ con la mannaia, lo fai diventare rotondo”. Mi ha mostrato, mi ha insegnato a dividerlo in ottavi e sedicesimi fino ad ottenere la forma arrotondata. Quello è stato il mio primo albero, per un bastimento in riparazione”. Quanto tempo è rimasto in Argentina? “Tredici anni. E lì feci il mio primo albero incollato. Lavoravo da uno che era appassionato di regate, aveva già un dragone più uno in costruzione per il quale realizzai il mio primo albero incollato in Argentina. Poi avevamo fatto un’altra barca per un norvegin adattata al Rio della Plata. Ci trasferimmo e dovetti adattarmi a lavorare in una falegnameria specializzata in porte, finestre e mobili. A Pirano avevo lasciato la morosa e dopo cinque anni lei mi raggiunse in Argentina e così ci sposammo. Ma la situazione stava peggiorando e nel 1963 decisi di tornare a casa, nel frattempo era nato un figlio e così, nell’ottobre del 1963, ero nuovamente a Trieste”. Che cosa l’aveva riportata a Trieste? “Un po’ la nostalgia e un po’ il clima che mia moglie non sopportava. Andai a lavorare da Craglietto dove trovai il maestro di quando avevo iniziato, il sig. Trani e Sergio Crisma di Portorose, con qualche anno più di me, venuti via da Pirano con l’esilio. Ad un certo punto, con Crisma, decidemmo di metterci in proprio ed iniziammo costruendo una barchetta di cinque metri sul tipo della passera lussignana. La seconda commessa fu per un peschereccio, poi ci chiesero di realizzare un piccolo cutter di dieci metri e con il passaparola ci trovammo a costruire una barca dopo l’altra, per ben ventisei anni”. I disegni chi li faceva? “Preferibilmente Carlo Sciarelli, ma molte volte ci venivano forniti direttamente dal committente. Alcune nostre barche hanno vinto le prime edizioni della Barcolana”. C’è una barca che le ha dato particolare soddisfazione? “Il suo nome è Lauriga, ci era stata proposta da tre soci. Bellissima è stata anche Lisa progettata da Vismara nel 1988. Poi Valentina, un fuoriclasse, per un signore di Milano, un quattordici metri su disegno di Sciarelli, poi Zeliga di quindici metri per un signore di Torino”. Cosa rende bella una barca? “L’amore che ci si mette nel costruirla e poi dipende da chi la ordina, se il committente è simpatico la barca riesce bene, se invece è capriccioso, ahimé… Il rapporto fra committente e costruttore è decisivo, come quando si crea un gioiello. Sciarelli lo ripete spesso che la barca nasce in nove mesi, come un bambino. Non sempre però, perché quella di 18 metri siamo stati due anni a finirla”. Il momento più emozionante? “Il giorno prima del varo, l’agitazione è alle stelle: per il trasporto, per l’impatto con l’acqua, perché ci sarà una gru a tenerla sospesa. Quando finalmente galleggia e va tutto bene, rimane soltanto la gioia”. Il varo oggi è una festa, era così anche a Pirano? “A Pirano, in quegli anni in cui io ho avuto modo di lavorare allo squero, non c’era la possibilità di fare grandi feste; i piranesi, quando varavano una barca nuova, la settimana dopo il varo andavano a Strugnano a farla benedire. Anche Craglietto, aveva un prete amico, e diceva che la barca bisognava benedirla prima di metterla in acqua”. E naturalmente bisognava brindare? “Brindare sempre, ma non alla greca. La loro tradizione vuole che sulla prua venga sgozzato un agnello affinché il sangue coli sulla coperta, poi viene buttato a terra ed arrostito allo spiedo per deliziare tutti quelli che vi hanno lavorato. Noi che siamo fondamentalmente pescatori facciamo delle gran mangiate di pesce in occasione del varo. Quando la barca tocca l’acqua, per me è il momento di trasformarmi in cuoco d’occasione e porto in tavola il miglior pesce del mondo: baccalà, le seppioline fatte alla peso non posso”. E che ricetta sarebbe? “È una filosofia più che una ricetta: alle dieci di mattina mi portano un secchio di seppioline dicendomi di prepararle per il pranzo, così mi ritrovo con 25-30 seppioline da pulire e cucinare in due ore, allora le pulisco alla peso non posso… però tutti a dire di non averne mai mangiate di così buone, e allora io mi diverto a farle”. E qualche ricetta piranese? “Mah, il baccalà è già una ricetta piranese, poi di piranese c’è la polenta con il radicchio e il pesce fritto che sono comunque piatti della nostra cucina di mare”. Cosa rende bravo un mastro d’ascia? “Come per tutti i mestieri, ancora una volta, la volontà e la passione”. È un mestiere che piace ai giovani? “Questo è un tema cruciale. Diciamo che, negli ultimi trent’anni, non si è cercato di rivalutare il piccolo artigianato, né c’è stata sensibilità nei confronti dei mestieri di nicchia. Nell’alto Adriatico, i giovani che fanno questo lavoro sono due o tre, poco per le esigenze del territorio. Con l’altro socio, il Pitacco, anche lui istriano verace, facciamo 107 anni di lavoro in due da poter trasmettere a due giovani che potremmo preparare a tirar su alberi”. Signor Giraldi, visto la vita che lei ha fatto nei cantieri in questi anni, consiglierebbe ugualmente ai giovani di seguire la sua strada, è stata una vita felice insieme alle sue barche? “Per me sì, anche se lo dico senza remore ai ragazzi che dovranno mangiare tanta polvere, nonostante oggi si usino le mascherine; poi c’è l’odore di pittura, bisogna pulire l’ambiente, guardarsi sempre in giro per capire cosa ci sia da fare. La paga, il fine settimana, deve essere guadagnata, anche con qualche sacrificio”. Che cosa le ha reso “facile” questo lavoro? “L’amore. Quand’ero ragazzo avevo due amici con i quali condividevo la mia passione per la cucina, volevamo fare i cuochi: uno, poi è diventato il cuoco di Kennedy e l’altro ha aperto un ristorante a New York. Io ho lasciato l’Argentina prima di maturare i quindici anni di lavoro necessari per aver riconosciuto il diritto alla pensione e quindi ho dovuto lavorare fino ai 65 anni d’età per meritarmi la quiescenza. Ebbene, in effetti la volontà e la passione mi hanno consigliato di non mollare. Uno può andare in pensione solo quando non ha più niente da fare. Certo non faccio più le dieci ore al giorno, vengo alla squero quando c’è bisogno, perché, fondamentalmente, mi piace questo lavoro. Anzi il mio rammarico è di non avere più l’età per lanciarmi nei lavori magnifici che l’evoluzione della costruzione in questi ultimi vent’anni oggi permette di fare”. Che cosa è cambiato? “Le colle, per esempio, che una volta non c’erano. Con l’invenzione della colla e dei compensati marini si è potuto alleggerire il tipo di costruzione, invece di lavorare con un blocco unico il fasciame lo si fa in cinque strati il che ha una resistenza di cinque volte superiore”. Un’ultima cosa, possiamo dire la sua classe? “1932”. Rosanna Turcinovich Giuricin