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October 10th, 2024
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Quanta grazia abbiamo perso con la morte di Valentino Zeichen

Poeta romano nato a Fiume, fu un vero anti sentimentale.

Dicessi che è morto l’ultimo poeta romano direi al contempo troppo e troppo poco, rischierei di passare per esagerato senza riuscire a rendere l’irreparabilità della perdita: Roma è pomposa e popolosa e di poeti ne produce a ogni generazione, morto un poeta laureato se ne laurea facilmente un altro (più bravo? Meno bravo? Vedremo). E’ più preciso e più importante dire che è morto l’ultimo poeta fiumano (Valentino Zeichen, morto ieri a Roma), era nato sulle rive del golfo del Quarnaro nel 1938, due anni prima che quel cretino di Mussolini dichiarasse guerra a mezzo mondo facendoci così perdere l’Istria, Zara e appunto Fiume). L’unica città conquistata e governata da un poeta, D’Annunzio, di poeti probabilmente non ne produrrà più: di italiani ne sono rimasti pochissimi, meno del due per cento della popolazione, e anche se un giorno sortisse un poeta croato sarebbe un poeta di Rijeka. “Sopra la città di Fiume passavano / le Fortezze Volanti B17 / dirette al sud del Reich” scrisse Valentino (lo chiamavo per nome pur di non azzardare la pronuncia del cognome germanofono).

La poesia si intitola “Infanzia” e se da piccolo si nutrì di queste immagini da adolescente non vide di molto meglio. Visse da profugo tutta la vita: io l’ho conosciuto nella famosa baracca sulla via Flaminia, alloggio schifoso e indirizzo prestigioso sotto la verde collina di Villa Strohl-Fern, a pochi metri da piazza del Popolo, dove ha abitato fino a quando due mesi fa è stato colpito da ictus. Si presentava ancora prestante ma era ultrasessantenne e viveva senza termosifoni, con un cucinino da campo, un tetto rappezzato, pareti di consistenza ridicola, un pavimento che se non era di terra battuta lo sembrava. Mangiammo quella che lui definì una ratatouille e che a me sembrò una peperonata, ma soprattutto bevemmo siccome era un bevitore e se ne vantava: “Bevo pubblicamente ed esibisco la tenuta: non sono mai ubriaco, è una questione di fisico, lo devo ai miei avi giuliano-dalmati”. La grande Elisabetta Catalano nel 1987 lo immortalò con le mani in tasca, i sandali, dei pantaloni da lavoro (lui che il lavoro lo amava poco), una giacca di buon taglio e un bicchiere di vino bianco appoggiato a fianco, come uno stemma, un simbolo araldico (Zeichen in tedesco significa appunto “segno”).

Purtroppo (avrebbe venduto qualcosa) non diventò il nostro Bukowski perché era un poeta anti-sentimentale e, nonostante la biografia, anti-maledetto. Era talmente anti-commerciale da rappresentarsi come militarista, scrivendo libri intitolati “Pagine di gloria” e “Gibilterra”, figuriamoci. “Noi importiamo brevetti ed esportiamo idee umanitarie”, mi disse, e poteva essere una frase di Cioran, non di un invitato nel salotto di Fabio Fazio. Alto e in gioventù senz’altro bello, fu baciato per decenni da un’eleganza naturale e visse dandisticamente circonfuso da una perfetta sprezzatura: non si lamentava mai, non era mica Dario Bellezza. Non implorò la Bacchelli, che definiva “il premio Nobel della miseria”: fu Luigi Manconi (Dio gliene renda merito) a fargliela dare. Se l’è goduto pochissimo il primo reddito fisso della sua vita di bohémien, è morto nel momento in cui grazie alla riabilitazione e forse agli avi giuliano-dalmati sembrava riprendersi, come raccontato da Renato Minore nell’ultima intervista in ospedale. Finalmente, paradossalmente, in virtù delle cure, dei riconoscimenti e degli amici negli ultimi giorni della sua vita non si sentiva più un profugo: “Forse per la prima volta provo nella mia esistenza questo calore, quest’affettività” . Peccato, fosse uscito da lì si sarebbe potuto permettere del vino migliore: quello che mi offrì quando ci conoscemmo era un fetido e giallo liquido da bottiglione, ma evidentemente non serve che il vino sia buono per scrivere buone poesie. I suoi erano brevi componimenti che sembravano disegni tracciati con la matita dura e discendevano da Marziale e dai più dimenticati poeti del Seicento. “Non sono un fusto”, diceva, meravigliosamente consapevole che il suo lauro fosse da genio minore. Quanta grazia abbiamo perso.

Il Foglio, 6 luglio 2016