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Il ricordo di don Bonifacio a 70 anni dalla morte in foiba

Doppia cerimonia organizzata dall’Unione degli istriani in memoria del religioso nato a Pirano.

La cerimonia nel largo a lui dedicato e, poco dopo, la solenne celebrazione in Cattedrale di San Giusto. Per il settantesimo anniversario del martirio di beato Francesco Bonifacio, l’Unione degli istriani ha organizzato per domenica 11 settembre, un doppio momento di raccoglimento. Si è cominciato alle cinque del pomeriggio davanti alla targa che si trova all’inizio di viale XX Settembre con la deposizione di una corona alla presenza delle autorità cittadine, con la presenza del sindaco Roberto Dipiazza, di un assessore della Provincia e di un rappresentante istituzionale della Regione. Sarà in particolare il presidente dell’Unione degli istriani, Massimiliano Lacota, a soffermarsi sulla figura del beato nato a Pirano il 7 settembre del 1912 e assassinato l’11 settembre (come si presume) del 1946 in una foiba vicina a Villa Gardossi in Istria. «Nella società di oggi – commenta Lacota – tanto in Italia, quanto in Europa, è del tutto opportuno ricordare personalità che sono state determinanti nella storia e nella nostra memoria. Don Bonifacio viene giustamente venerato non solo dagli esuli, ma anche dagli istriani di lingua e cultura slovena e croata». La commemorazione è proseguita domenica alle 19 con una messa solenne a San Giusto, officiata da Giampaolo Crepaldi.
Bonifacio era stato nominato da monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, cappellano di Villa Gardossi. Il sacerdote aveva operato in tutto il territorio parrocchiale, comprese le frazioni più lontane e i casolari più remoti. Insegnava dottrina a gruppi di bambini nei luoghi più isolati, nei cortili, nelle aie, nelle cucine coloniche, come si racconta. Visitava le case dei poveri, degli anziani e degli ammalati. «La sua parola disadorna, semplice ma efficace, piace alla gente», viene precisato nei documenti che ripercorrono la vita del beato. Il sacerdote aveva mantenuto contatti costanti con il vescovo e coltivava i rapporti anche con i confratelli delle parrocchie vicine di Buie, Cittanova, di Grisignana, di Veteneglio e di Villanova di Quieto. Ogni sabato e vigilia di festività, con qualunque tempo, si recava a Buie per confessare.
Don Francesco affronta con coraggio la difficile e pericolosa situazione che si crea sin in quelle zone dal 1943: «Soccorre tutti, italiani e slavi, si interpone tra le parti in lotta per aiutare amici e nemici, per impedire esecuzioni sommarie, per dare sepoltura cristiana a quanti sono vittime dell’odio e delle vendette più feroci, per difendere le case e le proprietà dai saccheggi e dalla distruzione, per ospitare, a rischio della vita, fuggiaschi e sbandati», si racconta. Ma, finita la guerra, si apre l’epoca degli odi etnico-nazionali e dell’occupazione titina con l’applicazione del comunismo sovietico contro la religione, la chiesa, i sacerdoti e i fedeli. Il sacerdote, che continua a prodigarsi nella sua opera pastorale, entra presto nel mirino degli jugoslavi.
È il pomeriggio dell’11 settembre 1946 quando, verso Villa Gardossi, viene fermato e arrestato da alcune guardie. Di lui, da quel momento in poi, non si saprà più nulla. Il 21 febbraio 1957 la sacra Congregazione dei Riti autorizza il vescovo Santin a istruire il processo per la beatificazione, mentre è il decreto della Congregazione delle Cause dei Santi, del 3 luglio 2008, a definire la morte di don Bonifacio come un “martirio”. Il 28 luglio, ricorda la diocesi, la Santa Sede comunica alla Curia che papa Benedetto XVI, accogliendo la richiesta del vescovo di Trieste, aveva concesso che il rito della beatificazione avesse luogo nella cattedrale di San Giusto a Trieste, come effettivamente avvenuto nel pomeriggio di sabato 4 ottobre 2008.

il Piccolo, 10 settembre 2016