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Rovigno 3

L’esodo da Rovigno per il terrore titino

di Elio Varutti – 27/03/2020
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La fuga da Rovigno scatta il 18 luglio del 1951 per Riccardo Simoni, di dieci anni e i suoi familiari; ecco il suo racconto. “Da Zara, da Fiume e, nel 1947, da Pola l’esodo è rapido e spesso drammatico così come da molte cittadine  all’interno dell’Istria – spiega Simoni – A Rovigno, prima del 1951 vediamo arrivare  studenti italofoni di Pisino per la chiusura del loro Liceo italiano. Ma Rovigno era ancora una città compattamente italiana, e italiane erano le scuole sino alle superiori. La maggioranza di noi non conosceva il croato. Con le seconde Opzioni del 1951 Rovigno vede rapidamente scomparire la maggioranza della popolazione italofona. Gli amici ‘rimasti’ ci hanno raccontano di una città per molto tempo spettrale, con le case svuotate, con tanti topi e gatti scheletrici che fuggivano spauriti. In pochi anni queste vennero occupate da popolazioni slave, spesso dal sud della Jugoslavia. I capoccia locali invece entravano nelle case più graziose degli esuli partiti. 

Io lascio Rovigno in una sera del 18 luglio del 1951 assieme a mio padre Cesare, la mamma Concetta Viscovich e i fratelli Vincenzo e Tullio, anche nel dolore di dover lasciare l’amata gatta Fiorella. Ricordo che  mio nonno materno Vincenzo Viscovich, con un carretto per i nostri pochi bagagli, ci accompagnò alla Stazione ferroviaria. Il treno dopo un lungo viaggio ci portò finalmente in territorio italiano vicino a Trieste, credo a Opicina, dove fummo accolti dalle dame della Croce Rossa che ci offrirono una tazza di latte e dei fagioli lessi che pare ci piacessero. Nei giorni successivi  fummo ospitati  preso i vari parenti paterni a Trieste e potei rivedere alcuni cari amici partiti durante la prima opzione e potei gironzolare con loro. Ricordo di aver letto, per la prima, volta un fumetto di Tex Willer. Nei pressi di Via Cavana ho gustato una pallina di gelato. Poi siamo partiti per Udine, in un Centro smistamento profughi, buio e triste, dove avrebbero deciso quale Centro raccolta profughi ci avrebbe accolto”.
Perché siete venuti via?
“Fondamentalmente per una mancanza di libertà – replica il dottor Simoni – accentuata negli anni successivi al 1945 e con un aggravamento durante e dopo le vicende fratricide tra comunisti cominformisti, fedeli a Stalin, e con  spirito internazionalista, e comunisti fedeli a Tito sempre più succubi al nazionalismo filo slavo”.
Si deve sapere che Rovigno era considerata zona rossa, con molti partigiani, ma dopo la rottura di Tito con Stalin, del 1948, iniziano in tutta la Jugoslavia le purghe titine contro ogni sorta di dissidente dalla linea del partito.
“Rovigno era una cittadina con componenti nella sua popolazione di idee molto variegate – spiega Simoni – i contadini erano in genere molto attaccati alla religione, mentre pescatori e marinai lo erano meno. C’erano infine oltre un migliaio di operai  nella locale Manifattura Tabacchi [le operaie erano dette: le tabacchine] e in altre aziende con uno spirito molto aperto alle idee libertarie dell’inizio del Novecento. Mia nonna in fabbrica cantava canzoni anarchiche tipo ‘Addio Lugano Bella’. Il Partito comunista nel primo dopoguerra assorbì gran parte dei socialisti ed ebbe le sue vittime al sorgere del fascismo, i suoi carcerati o al confino, o combattenti in Spagna e nella Resistenza Francese. Rovigno ha avuto, infine, oltre un centinaio di morti nei lager nazisti o nella lotta partigiana. Questi comunisti durante il Ventennio in città organizzavano il ‘Soccorso Rosso’ avendo continui contatti con importanti esponenti del PCI nazionale. Tutti avevano una ideologia fortemente internazionalista che si sarebbe scontrata con l’evidente  strategia nazionalista e annessionistica dei comunisti croati.  
La resa dei conti avvenne con la rottura tra Tito e Stalin e così si creò finalmente l’occasione per decapitare in tutta l’Istria e a Rovigno questa generazione di comunisti ormai ‘anomali’. Ricordo che nella casa accanto alla mia, tra Via Daveggia e l’inizio della Carrera, c’era la sede della Polizia popolare. Dalla finestra del 3° piano potevamo sentire le urla dei comunisti cominformisti pestati a sangue. Uno di questi, Quarantotto, Capitano della resistenza francese, per queste sevizie morirà poco dopo a GoliOtok-l’Isola Calva. E noi spesso chiudevamo le finestre e cantavamo ‘Fratelli d’Italia’. Ricordo anche i nostri pianti quando, alla radio, sentimmo nel 1949 della tragedia di Superga, dove morì tutta la squadra di calcio del Torino. In seconda elementare mi pare di aver avuto una ventina di maestri, quasi tutti cominformisti. Vedevo le maestre umiliate a spazzare le strade, mentre i maestri semplicemente sparivano”.
Nella sua famiglia si parlava della vicenda delle foibe?
“Forse ero troppo piccolo e ne sono venuto a conoscenza più tardi – risponde il testimone – mio fratello, del 1937, mi dice che lui ne aveva sentito parlare. A Rovigno ci furono due periodi di infoibamenti, nell’autunno 1943 e dopo il maggio 1945. In entrambi i casi è ora documentato che le esecuzioni avvenivano solo per espliciti ordini della polizia segreta, l’Ozna. Nel 1943 oltre trenta rovignesi vennero consegnati al Tribunale Popolare di Pisino e poi infoibati. Il tutto avvenne sotto il comando di Ivan Motika ‘Franic’, responsabile per l’Istria dell’Ozna da una lista di nomi fatta da un gruppo di giovani esaltati di Rovigno, ‘quelli della Ceka’ [la Ceka era il servizio segreto dell’Urss dal 1917 al 1922]. Essi emarginarono da ogni decisione i dirigenti comunisti ‘storici’. Ormai i loro nomi sono quasi tutti conosciuti e sono ora  tutti deceduti con i loro segreti. Uno di loro era Paolo Poduie, divenuto dopo l’ottobre 1943 partigiano nel Veneto e poi Capitano del SOE, futura Intelligence Service inglese. Si possono trovare notizie esaurienti in Internet. Poduie è morto tanti anni dopo, in silenzio, a Milano. Tutti, anche i bambini, sapevano che l’Ozna controllava tutto. Dal maggio 1945 avvenne a Rovigno  un’altra serie di infoibamenti con il carattere peculiare che i cadaveri degli uccisi nella grande maggioranza non vennero mai più trovati e questo atroce segreto permane. Nel 1943 venne infoibato il padre del mio caro amico, recentemente deceduto, Nino Maressi, che ben sapeva il nome di chi l’aveva fatto arrestare, rivisto poi profugo a Monfalcone. Nel 1945 scomparvero il padre e il giovane fratello della mia cara amica Bianca Benussi. Lei ricorda ancora con strazio quella vicenda”.
Nel libro di Flaminio Rocchi non compaiono, tra gli italiani eliminati nelle foibe, né un Maressi, né un Benussi. Ben quattro Benussi di Rovigno compaiono, invece, tra gli eliminati dai titini nel 1943-1945 e un Andrea Maressi, guardia notturna, nato a Rovigno nel 1904 e ammazzato il 30 settembre 1943, in base all’Elenco “Livio Valentini”. Tra l’altro, l’Ozna, secondo un rapporto segreto del Ministero dell’Interno italiano, del 1946, era “già riuscita ad infiltrare molti elementi nelle file dei cetnici [monarchici serbi], specie tra i profughi giuliani che si trovano a Roma nei campi profughi di Forte Aurelio e Cinecittà”. La stessa organizzazione segreta iugoslava, in base al citato rapporto, ha stretti contatti con i sovietici (vedi in: Sitologia).
Ho letto su «Chiantisette» che suo suocero e suo padre Cesare erano partigiani?
“Mio suocero era partigiano nei boschi attorno a Rovigno – aggiunge Simoni – dove avvenivano continui rastrellamenti. Mio padre, autodidatta plurilingue, durante l’occupazione nazista era interprete del Comune e quindi anche nei rapporti con l’attiguo Comando tedesco, ma facente parte dell’intelligence partigiana  cui comunicava, per sicuri tramiti, le preziose informazioni che riusciva a captare, catturandi, rastrellamenti ed altro. Un giorno vidi mio padre con la faccia tumefatta e piena di sangue. Ci disse che era caduto di bici. Dopo la sua morte nel 1997 abbiamo trovato un suo prezioso memoriale su tutte le sue vicende dall’armistizio del 8 settembre 1943 al 1946, dove racconta di essere stato pestato a sangue dalle Waffen SS che gli comunicarono i sospetti verso di lui ordinando di dire alla famiglia di essere semplicemente caduto. Ma tempo dopo venne smascherato e ricordo la sua cattura in una notte dell’autunno 1944. Il comandante  tedesco lo salvò scrivendo soltanto ‘sospetto partigiano’ nella sua scheda. Da Pola finì al Coroneo di Trieste e quindi con un convoglio deportato nella stazione di Dachau, dove veniva la scelta di ‘arbeiter schiavi’ da parte di vari industriali. Venne inviato in un lager di Sweinfurt, città dove si produceva oltre l’80% dei cuscinetti a sfera della Germania, con bombardamenti a tappeto quasi quotidiani. Tornò magro ma vivo nell’estate del 1945 e, pur non essendo comunista, venne apprezzato come amministratore tanto da divenire, sino alle opzioni, Direttore della Impresa edile locale. Optando, come tanti rovignesi, finì, prima alla miniera dell’Arsia e poi nella costruenda ferrovia Lupogliano-Stallie. Ho recentemente raccontato che in guerra i bimbi crescono alla svelta e quindi ricordo un pomeriggio soleggiato del 10 ottobre 1943. Non avevo ancora 3 anni, accompagnato da mia zia Nina, quando venimmo circondati da soldati tedeschi e obbligati ad assistere alla impiccagione di un giovanissimo partigiano slavo, pieno di bende insanguinate, su un lampione delle rive del porto. Ora c’è il suo ricordo su una pietra accanto al ‘molo piccolo’ che serve solo per sedersi e mangiucchiare un panino. Ma esistono di quegli anni tanti altri ricordi vivissimi. Persone amiche di famiglia aderirono alle formazioni fasciste, un cugino di mio padre, mezzo boemo del Sudeti, finì la guerra nelle Waffen SS, un altro faceva parte del SIM della RSI. Un illustre chirurgo di Rovigno Chiurco, podestà della RSI di Siena e storico della Rivoluzione Fascista  dopo la liberazione di Siena  nell’estate del 1944 ebbe , per qualche merito verso i senesi , solo un blando e provvisorio atto di epurazione. Ricordo, poco prima di essere ucciso, il capo dei fascisti Steno Ravegnani, a casa di nonno addetto alle Pompe Funebri, ordinare una ghirlanda per un milite e dire che sarebbe andato con i partigiani se l’Istria fosse rimasta italiana: mah! [Nell’Elenco “Livio Valentini” c’è uno Stefano Ravegnani di Rovigno, della Milizia Difesa Territoriale. – 2° Rgt. “Istria”, eliminato il 13 aprile 1945]. Ho sempre pensato che le nostre terre sarebbero, alla fine della guerra, comunque perdute, chiunque avesse vinto”. 
Cosa ricorda del Centro raccolta profughi di Laterina?
Siamo partiti di notte da Udine in treno – dice Simoni – e solo nella mattinata siamo scesi a Laterina Scalo, dove ci attendeva un camion scoperto che ci ha portato al CRP di Laterina, già   Campo di concentramento di prigionieri inglesi, poi lager tedesco e quindi per prigionieri fascisti della RSI trasferiti dal campo di concentramento di Coltano (PI). Dopo le prime opzioni di profughi giuliani, fiumani, dalmati e dalla Grecia. Insomma in questa pianura piena di baracche erano ospitate oltre duemila persone. Una di queste baracche era adibita a scuola elementare, un’altra per una chiesetta, una per la direzione e poi tante baracche in fila per le tante famiglie. Esse erano divise da fili di ferro con appese delle coperte, con piccole stufette e letti a castello militari. L’unico gabinetto alla turca stava ovviamente all’aperto. Ogni famiglia riceveva un sussidio in denaro di circa 100 lire a testa al dì. Eppur durante l’alluvione del Polesine, di mesi dopo, i profughi fecero una gran colletta per i nostri fratelli sfortunati. A Laterina siamo rimasti sino al 1955, nel frattempo io finivo la V elementare e iniziavo poi una lunga storia di Collegi di Stato. Tre anni al Collegio Raffaello di Urbino e cinque a Carrara. Mio padre aveva trovato un lavoro presso il Comando Alleato del Sud Europa a Firenze  e quindi assunto come guida turistica dalla CIT in Svizzera e poi a Firenze. Finalmente, dopo anni di stenti, a Firenze potevamo avere un appartamento INA Casa, con un affitto molto modesto, che ha permesso una ascesa scolastica a tutti i tre fratelli Simoni. Durante la permanenza a Laterina non abbiamo mai manifestato  pentimenti per la scelta fatta optando. La  libertà  faceva la differenza.  
A Laterina c’era una comunità di rovignesi legati dal comune affetto, da vecchie e nuove amicizie e dall’amore per il paese lasciato. Nel 1960 mi iscrissi alla Facoltà di Medicina a Firenze vivendo da protagonista le vicende associative universitarie e anche politiche. Solo nel 1963 sono tornato a Rovigno abbracciando i nonni materni che pochi anni dopo sarebbero scomparsi. Nel 1966 ho conosciuto la mia futura moglie Luisa, rovignese, allora in vacanza. Ogni estate, quando posso, torno a Rovigno, nella vecchia casa dei nonni vedo le foto orgogliose di Vincenzo Viscovich in splendide divise di Ulano di Sua Maestà Imperiale per cui ha combattuto dal 1914 sino al 1918 e di cui nel suo intimo è sempre rimasto fedele. In questa casa d’estate posso dormire nella camera dove sono nato quasi ottanta anni fa e in altre stanze  ci guardano le vecchie foto dei nonni, zii, con quadri di amici, di mio padre Cesare e miei, del fratello Vincenzo, del fratello Tullio recentemente scomparso. Da qualche estate esiste una calda comunanza con ‘amici degli anni Trenta’ quelli ‘rimasti’, scanzonati ‘amici miei’ con aggregati altri leggermente più giovani con qualcuno anche croato dei dintorni che però si appassiona del nostro dialetto e canta nel coro della nostra Comunità degli Italiani di Rovigno. Da qualche anno si sono infittiti i rapporti tra gli esuli della ‘Famìa Ruvignisa’ con la locale Comunità di Rovigno sino a celebrare insieme, nel 2020, il Giorno del Ricordo,  cantando  finalmente anche l’Inno all’Istria”.
Mi pare che lei vada nelle scuole a parlare del Giorno del Ricordo?
“Da oltre dieci anni partecipo come testimone alle cerimonie che il Comune di San Casciano (FI ), dove abito, promuove per il Giorno del Ricordo – conclude Simoni – anche nelle scuole medie di vario grado. Talvolta ho parlato a Firenze in Palazzo Vecchio a delle scolaresche. Tempo fa ho partecipato come docente a due seminari agli insegnanti della Scuola Media locale, con  assegnazione di crediti, offrendo documentazioni scritte di studiosi e anche di mie modeste  ricerche. La passione per la storia contemporanea in me ha origini antiche anche  per il desiderio di capire le cause che hanno portato alla quasi scomparsa della nostra etnia dalle terre ormai perdute. Ho sempre cercato fonti diverse, scartando quelle in palese malafede o di grave ignoranza, ascoltando sempre le sofferenze di chi ha subito, di qualsia etnia si trattasse, le violenze del Novecento, il terribile ‘Secolo breve’ con i suoi variegati totalitarismi”. 
Finisce così l’intervista al signor Riccardo Simoni, geriatra, psichiatra, fisiatra, medico ospedaliero in pensione, docente universitario, ma soprattutto sempre curioso nelle sue letture, nei piccoli disegni, collages, foto, poesiole e nei rapporti con gli amici sempre più radi, allegri, invecchiati, o scomparsi e con  nuovi che spera arrivino ancora. Egli ricorda cose orribili dell’Istria, oppure il buon odore di un pacco giunto da Trieste con delle arance e lui si è tenuto in tasca per due mesi le scorze per il profumo delizioso di agrumi. Alla fine degli anni ’40 la gente mangiava la carne solo una volta. Poi subentrò molta paura e la totale mancanza di libertà. Riccardo Simoni ricorda soddisfatto che a Rovigno, il 95% dei cittadini era italofono e ancora nel 1951 non c’era il bilinguismo italiano-croato. Tutto era in italiano, le scuole e le strade. Gli slavi avevano solo tre classi con elementari, medie e superiori. Poi la snazionalizzazione titina ebbe il sopravvento. L’interno e il contado erano per lo più slavofoni, ma Rovigno no, come molti centri costieri istriani. Nell’intervista ha ripetuto più volte: “Siamo andati via perché non c’era la libertà, avevamo la sensazione di essere continuamente osservati, spiati dalla polizia”.
Come mai diversi ragazzi in Istria, dopo l’8 settembre 1943, si lasciano ammaliare dal movimento partigiano iugoslavo? Forse ci aiuta a capire lo scrittore Fulvio Tomizza. “Nell’indecisione, nella confusione e nell’euforia, alcuni reduci con fazzoletti rossi al collo piegarono la resistenza del loro ex educatore e si cacciarono in scuola. Erano ragazzi sospesi fra un fascismo autocritico e un vago comunismo, in attesa del precipitare degli eventi; si erano procurati un timbro con la stella rossa e la scritta bilingue. Li rifornivano contemporaneamente di cibo e bevanda Ludovico e Gabriele Pavlovich da una parte, il barba Ive Stocavaz e i suoi primi croati dall’altra” (La miglior vita, p. 160).
Ringraziamenti
Per il presente articolo la redazione del blog è riconoscente al signor Claudio Ausilio, esule da Fiume e socio dell’ANVGD di Arezzo, che ha fornito con la solita cortesia i contatti per la ricerca presso il dottor Riccardo Simoni, andando a incrementare una tradizionale e collaudata collaborazione con il Comitato provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.